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  MOSTRE D'ARTE  

PELLINI

   

 

 
EUGENIO PELLINI, EROS PELLINI, 
ADRIANO BOZZOLO
 
GIPSOTECA SPAZIO CULTURA
COMUNE DI MARCHIROLO (Va)
progetto e realizzazione del Museo
 a cura di Fabrizia Buzio Negri 
Catalogo: Edizioni Nicolini
Il Gesso, primo dialogo con l'idea
Se il disegno è l'attimo fuggitivo, il gesso è la realizzazione compiuta dell'idea, prima che essa venga trasferita definitivamente in altro materiale. Il gesso è materia povera, è polvere da coniugare con l'acqua per dare la prima forma alla scultura, quando ancora è in grado di accettare ripensamenti, emozioni, moti della mente e del cuore dalle mani stesse dell'artista. Interviene l'asciugatura a definire i pezzi, molti dei quali rimangono 'unici' a testimoniare momenti creativi, senza che siano riversati in materiali più 'nobili'. Ogni scultore ama in modo particolare i 'suoi' gessi, in quanto restano a rappresentare l'evolversi dell'idea, in quel cammino d'artista che si apre al mondo attraverso le opere, in bronzo, in pietra o in altra materia, sculture che vanno a collocarsi nei musei, nelle gallerie, nelle collezioni private.Nascono le gipsoteche, raccolte dei gessi più significativi nella vita di uno scultore. Marchirolo, terra legata a scultori del calibro di Eugenio Pellini, di Eros Pellini e di Adriano Bozzolo, ha inteso visualizzare questo 'segreto' scultoreo, identificato nel 'gesso', attraverso l'allestimento di uno spazio museale dedicato ai tre artisti. In un tempo mutevole, dove la dimensione dominante è quella dell'immediato dissolvimento delle immagini e degli eventi, la programmazione e la realizzazione di un museo appartengono agli avvenimenti straordinari. Ancor più se si pensa ad un paese transfrontaliero, in cui gli intrecci delle storie umane sono andati inesorabilmente sciogliendosi, a causa delle emigrazioni che hanno segnato secoli di vita. Un paese antico, nel verde di quella vallata dell'Alto Varesotto, che guarda al Ceresio e alla vicina Svizzera.Un luogo reale, dunque, è la Gipsoteca di Marchirolo, dove il visitatore può conoscere e apprezzare i frutti di tanto lavoro artistico. La scansione museale non si prefigura soltanto territoriale, bensì si ritrova pronta a dialogare con la vicina Svizzera ticinese e con Viggiù, dove si rintracciano rispettivamente la raccolta dei gessi di Vincenzo Vela a Ligornetto e il viggiutese Museo Butti. Si è venuto, in tal modo, a creare un triangolo culturale in questo Alto Varesotto, ricco di cave, di cavaioli, di artigiani, di scalpellini, uomini che con maestria hanno tenuto viva una tradizione ben radicata. E nei secoli tale consuetudine svela illustri personaggi, accanto a ignoti abilissimi maestri di bottega. I nostri artisti si collegano idealmente a tali generazioni, in un prezioso 'continuum' storico-operativo. Non solo presenze di scultori a Marchirolo; le testimonianze pittoriche dei 'murales' nel centro storico narrano del tema dell'emigrazione, in tutta la sua dolorante e autentica verità. Composito appare, dunque, il tracciato artistico marchirolese; un intendimento preciso delle istituzioni consente di non lasciare scorrere via le memorie, valorizzando un patrimonio di cultura e d'arte divenuto sempre più raro.
Eros Pellini
Il tempo interiore. La quotidianità e il sacro.
 
"Amo il vero e non posso staccarmi da esso". L'affermazione di Eros Pellini trova riscontro, direttamente o indirettamente, nella sua scultura, con cui ha inteso stabilire, sì un dialogo con la tradizione, ma al di là di ogni esteriorità mimetica, inseguendo un proprio ideale di plasticità nella riflessione e nella introspezione inseguite su percorsi umani. Fonte di ispirazione primaria, in una ricerca volta all'armonia formale, è la vita da cogliere con occhio attento e amoroso.
La seconda guerra mondiale elimina gran parte della statuaria celebrativa di regime nella divisione ben nota tra artisti 'indipendenti' e 'ufficiali'. Eros Pellini si ritrova 'molto' vicino a Wildt e ad Arturo Martini, autori che egli soleva indicare quali maestri assieme al padre Eugenio. E proprio di Martini egli cattura quell'ispirazione che l'avvicina di più agli antichi che ai contemporanei, in quel composito stile che gli diede fama. L'insegnamento di Martini, pur nelle sue inquietanti contraddizioni come i pensieri relativi a "scultura, lingua morta", era stimolo attivo per i giovani di quel tempo che intendevano allontanarsi dal classicismo accademico, sulla via giusta per una nuova generazione di scultori italiani. Eros Pellini sente dentro sè richiami lombardi identificabili in quel sapore antico derivato dall'arte romanica.
La vena pelliniana si identifica ben presto in una scultura piena di sfumature recondite, con accenni poetici nella modulazione plastica essenziale, pronta a richiamare una morbida intimità.
Da quel "Ragazzo che tira l'arco", opera giovanile oggi perduta, esposta alla mostra dei Sindacati nel 1932, si giunge ben presto al bassorilievo "La Terra", 1946, della Sala Alessi di Palazzo Marino, Milano, dove il modello classico si anima di un particolare sentimento interiore. La stesura è ben conclusa nella sintesi di un raccontare suadente, configurato in una armoniosa proporzione formale.
L'apprendistato di Brera si è ormai definito in un suo modo connaturato con lo spirito; rimane fondamentale l'essenza poetica di ogni figura che trattiene in sè quei valori ideali espressi in tutta serenità, ordine, equilibrio, lontani dalle grida, dalle lacerazioni violente. Il rifuggire dalle tensioni espressionistiche nulla toglie alla storia che ogni figura reca in sè, negli affanni intimamente vissuti, anche se non apertamente palesati. Eros Pellini si addentra nei grandi temi della vita, quali l'amore, il sacro, la famiglia, con una propria sobrietà espressiva, che diverrà la sua cifra principale. Sia nella coralità delle grandi composizioni religiose e nelle sculture cimiteriali, sia nell'attenzione affettuosa e sensibile agli aspetti familiari della quotidianità, egli imprime naturalezza e semplicità: nella levità dell'apparire, i personaggi lasciano intravvedere l'anima.
Sin dagli Anni Trenta, iniziano le affermazioni nel non facile mondo della scultura; tra gli altri, l'acquisizione del Premio Tantardini lo collega idealmente al padre Eugenio.
Nel 1939, l'importante commissione per il tempio di Santa Rita a Cascia lo vede impegnato per un decennio nella realizzazione delle sacre sculture. E' chiamato alle manifestazioni espositive di maggior rilievo, alle Biennali di Venezia, alle Quadriennali di Roma, alle Mostre Internazionali del Bronzetto a Padova.
Una dedica speciale va all'insegnamento, cui Pellini attende con grande amore verso i giovani. Varie le committenze civili, tra le quali sono da citare "Le quattro stagioni" della Fontana di Piazza Giulio Cesare, a Milano; qui l'ammirato assunto romanico lombardo si esprime in una misura entro un'aura di serenità, come sarà ancora possibile ritrovare nella dimensione particolare del bassorilievo "I vecchi mestieri", dello Stomatologico di Milano, dove l'artista non rinuncia alla amata medievalità di tono nella sequenza compositiva.
Nel Duomo, al Monumentale, al Palazzo di Giustizia, ai Musei Vaticani si rintracciano i molti lavori della sua vita artistica, lontana dagli 'ismi', ma presente nel tempo, in una coscienza precisa dei propri mezzi espressivi e del contributo personale da offrire.
Nell'atelier luminoso che fu del padre, in via Siracusa, nascono le figure femminili, create in una narrazione sciolta e affettuosa del modellato.
Nelle varie esecuzioni di "Ragazza Lombarda", Pellini liberamente lascia fluire le qualità della sua terra." Amo la mia terra - diceva - ne apprezzo la potenza e la generosità ". E la "Bagnante" del Premio Bagutta 1965, come la "Ragazza che cammina" dello stesso anno, ben si inseriscono nella peculiare sensibilità interpretativa, nell'immaginario caratterizzante delle 'sue' donne, dalle ballerine alle figurette delicate e vibrate in una straordinaria varietà di modulazioni.
Negli Anni Settanta, la vena scultorea di Eros Pellini accentua una maggior speditezza nella rappresentazione dei personaggi, che talora, anche se in gruppo, si mantengono 'isolati' nella loro interiorità. Così, una pacata energia si dissolve negli "Acrobati", come nel bronzetto "La Famiglia dell'Architetto", che assume valenze atemporali nell'immediatezza domestica, vicina al sentire di artisti quali Messina e Manzù.
Avvicinandosi agli Anni Novanta, quasi a concludere un percorso d'arte felice e ricco di inventiva, Eros Pellini acuisce certi aspetti bozzettistici, dal tocco rapido; nascono in tal senso opere come "Colpo di vento" del 1991 o "Il Gallo" oscuro e scomposto o certi scontrosi Cavalieri della fantasia, come il "Don Chisciotte".
Nelle memorie autobiografiche, si sente il rispetto per la manualità, quale fondamento della scultura, appresa dal padre adoperando quel 'violino', 'strano arnese' che da bambino aveva imparato ad usare. Il suo racconto è terminato quell'otto di ottobre del 1993; la sua anima d'artista, sensibile e generosa, è dinnanzi alla verità.

 

Eugenio Pellini
Iconografia del sentimento
La fisionomia artistica di Eugenio Pellini appare connessa ad una tipologia di scultura lombarda tardo-scapigliata, con una seduzione particolare offerta da un sentimento di modernità pronto a ravvivare espressioni plastiche pregnati di un'idealità profonda. Il discorso prende avvio da una iconografia legata al gusto della società fine-Ottocento, che rivolge molto spesso uno sguardo alla rappresentazione del privato e del sentimento per evolversi nei riverberi umani e sociali delle istanze più avanzate del tempo.
Uno dei fili conduttori più amati nell'arte di Eugenio Pellini riguarda le 'piccole cose' della quotidianità, con un'attenzione precisa al mondo della fanciullezza e alla condizione infantile nei caratteri più generali. Sono tenere figure, espresse nel bronzo e nel gesso, testimoni pieni di grazia e di malinconia; intenti ai loro giochi appaiono in una riservata espressione, nel magico cerchio difficile per un adulto da violare.
Il tema infantile è significativo nella produzione dell'artista, sempre animata dall'ansia di raccontare i grandi sentimenti nel modo più semplice.
Non sempre i bambini appartengono alla realtà delle classi abbienti, nella modellazione che li rivela nel momento appartato del gioco o nell'amorosa e struggente simbiosi dell'affetto materno, come lo sono "Bambini che giocano" del 1884 o la coeva "Madre col bambino". Il repertorio dello scultore si ispira talora a definizioni più argutamente popolane: compaiono fanciulli che riportano più espressamente a parentele medardiane, dalla peculiarità psicologica molto intensa.
Vibrante e acerbamente spavaldo, il "Monello" alias "Fanciullo di Nazareth", 1891, riunisce in sè la forza simbolica del Bambino-Cristo e l'immediatezza visiva del figlio del popolo.
Eugenio Pellini, in tal modo, si 'sente' in una prospettiva storico-artistica calata nell'atmosfera lombarda di fine-secolo, a coinvolgere verismo, simbolismo, talora impressionismo nonchè idealismo familiare e collettivo. Personalissimo è questo rappresentare pensieri e sentimenti nella maniera più semplice e gentile, nelle venature appena accennate di una malinconia suasiva e intensamente affascinante. Medardo Rosso è di certo il modello più amato e cercato in un approfondimento continuamente meditato nella vocazione all'antimonumentalità e nel tocco sensibile alla luce. Non scevro di significati è il rapporto intrattenuto con Paolo Troubetzkoy nel panorama della produzione otto-novecentesca di piccole sculture in bronzo o in marmo, da inserire in ambito familiare, figurine struggenti nella loro sommessa espressività.
La stessa leggibilità stemperata nella cultura artistica di Pellini la si ritrova nelle commissioni funerarie, cui erano chiamati gli artisti della sua generazione dal Bistolfi al Butti, al Bazzano.
L'opera monumentale più nota è sicuramente il "Cristo nel Getsemani", 1895; isolato, immobile, il volto affilato teso verso l'alto, il Gesù di Pellini è già un'apparizione fuori del tempo e dello spazio.
La tenzone artistica col Bistolfi aveva già preso evidenza ne "L'Angelo del Dolore", 1894; si ribadisce quel rifuggire pelliniano dal pittoresco e dal declamatorio verso una imponderabilità spirituale, che si volge ad una sensibilità nuova supportata da una levità d'immagine di marca simbolista-floreale.
Le immagini, naturalmente leggibili, chiariscono bene il suo talora polemico pensiero sugli eccessi di orientalismo e sulle esigenze declamatorie di alcuni noti artisti coevi. L'intesa con Alfredo Melani, architetto e intelligente teorico del Modernismo, traduce l'interesse di Pellini verso le problematiche culturali che si agitano nel trapasso del nuovo secolo, esplicitamente catturato dal linguaggio liberty. In armonia con l'evoluzione del gusto, la vocazione pelliniana si caratterizza nell'ansia di offrire grandi valori etici nel privato e nei temi civili, attraverso un'intensa tensione poetica nel piglio scultoreo e nell'ambivalenza dei titoli 'doppi'.
Nel 1897 ritorna la tematica a lui cara della 'Maternità': "Madre" vince il Premio Tantardini e viene scelta per essere inviata a Parigi, per l'Esposizione Universale del '900. Un gioco sottile di equilibrio si realizza tra i corpi avvinti della madre e del bambino, quasi assorbiti l'un l'altro e sublimati nell'atto del più alto sentimento d'amore, tanto efficacemente esemplificato in uno spazio scultore determinato.
Eugenio Pellini non ha tralasciato mai i soggetti familiari in cui ricorrono spesso il volto della moglie e le presenze dolcissime dei figli, anche quando l'artista si ritrovava coinvolto in importanti partecipazioni a concorsi pubblici, come per il monumento da dedicare alla mitica partenza dallo Scoglio di Quarto, o per le porte del Duomo di Milano oppure per il Giuseppe Verdi.
La figura dell'"Eroe dei Due Mondi", 1901, è demitizzata nell'interiore gestualità di 'Buon Pastore', siglata dall'avanzamento statico della figura riconoscibilissima che protegge l'animale tremante. La stessa caratteristica inclinazione la si ritrova nel "Giuda" e nel "Minatore", entrambe opere del 1906, create nell'ispirazione prevalente da riportare a Michelangelo e a Rodin, quest'ultima paternità illuminante per il "Carlo Marx", 1913, che palpita nelle nitide scalpellate sul gran masso di pietra.
La scultura di Eugenio Pellini nulla trattiene di certa retorica del tempo; nel privatissimo come nel pubblico, l'impegno suo d'artista si mantiene entro un delicato, costante equilibrio tra forma, volume e introspezione. Con mano leggera, nel contempo sicura, egli traduce nell'espressività plastica il sentimento interiore ribadito in una sapienza tecnica che sa addolcire il dettaglio nei morbidi trapassi dei piani costruttivi.
Gesso, marmo, bronzo. Soprattutto nel gesso si coglie la valenza luministica che rivela l'indagine psicologica nei passaggi di matericità tra levigature e superfici scabre.
Dal monumentalismo alla piccola dimensione, emerge sempre la componente spirituale, intimamente congiunta alla materia.

 

Adriano Bozzolo
Musicalità e slancio nella stilizzazione scultorea
In ogni sua biografia si legge come riferimento costante, il provenire da una famiglia antica, di ceppo lombardo, stabilitasi, fin dal Cinquecento, nella Valmarchirolo.
Una famiglia da cui è scaturita una lunga teoria di stuccatori, pittori, scultori, andati a decorare palazzi e chiese, com'era in uso nei secoli andati, in quel di Lucerna, di Zurigo, di Vienna e in altri luoghi di grande prestigio.
Di questa secolare genealogia costituita da gente solida, attiva, sapiente nel proprio lavoro, Adriano Bozzolo è l'epigono. Anche se la scelta pare obbligata, la vocazione d'arte si manifesta fin dalla più tenera età, quando viene a contatto con gesso, colori, argilla.
Sante Bozzolo, il padre, continua con sapienza la 'dinastia' dei decoratori di ville, chiese, palazzi, ma è anche pittore e scultore.
La frequentazione del Liceo Artistico di Brera e parallelamente gli studi musicali danno alla formazione del giovane Adriano la consapevolezza dell'arte, da declinare non solo come disciplina unidirezionale, bensì come momento pronto a distillare le tante possibilità emozionali ed espressive.
La pratica d'arte che lo porta verso la scultura sembra riassumere una consapevolezza antica e, al tempo stesso, gli offre una libertà di sintassi legata alle consonanze contemporanee.
La maturazione si compie, via via, negli anni nella coerenza di una poetica da cui mai si è allontanato. A guardare la sua produzione dal Cinquanta ad oggi, tutto pare inserirsi in un 'continuum' di ritmi plastici che da ogni singolo pezzo si distende al 'corpus' delle opere in generale. E' una compiutezza narrativa che si scandisce nella musicalità dei gesti, nella distensione ascetica dei motivi; l'equilibrio formale è sempre frutto di una ricerca che non si pone mai il limite dei rapporti volumetrici o del puro decorativismo.
Siamo dinnanzi a pagine di un unico racconto che prende avvio da poetiche intuizioni di vitalità della materia, per una universalizzazione della forma che acquisisce i sentimenti di un arduo, risentito messaggio.
Lo slancio utopico germina dal "Tema della Fraternità", sogno in cui crede fermamente Adriano Bozzolo, anche se ben conosce il lungo tormentato itinere dell'uomo.
E la "Danza della Fraternità" si raccoglie nelle tre figure di adolescenti, pudiche e leggiadre, convincenti nella plastica nitida, pronta a innescare un simbolismo assolutamente non banale.
Il tema si ripropone successivamente con una stilizzazione sempre più trascendente, in una tensione di movimento che diviene essenziale nell'opera scultorea. Le forme tendono vieppiù all'incorporeità, quasi a farsi anelito per spezzare catene e sondare una spiritualità arcana.
Nella sequenza dedicata al "Grande Sole", l'evoluzione del cerchio si definisce perimetro e superficie, ma sempre potenza sorgiva della vita, nella visione magica di un divenire esistenziale. La rigenerazione spirituale si accentua, nell'ossessiva presenza di una luce folgorante da cui uscire o a cui tendere. L'emozione della musica si svela momento unico ispirativo, fuori dalla sola enunciazione formale.
"Esplosione musicale" propone le angolazioni delle membra a tendere le vesti, sì da sprigionare uno straordinario cinetismo; la figura pare ormai sollevata dal terreno, freccia vibrata verso l'infinito.
La monumentalità della statuaria tradizionale si disconosce nelle opere di Bozzolo, fino a raggiungere la tanto agognata immaterialità.
"Sete di luce" perfora il cielo nel ritmo ascensionale, svettando nella vibrazione di una musicalità espressa plasticamente. La trasfigurazione della figuralità, nelle suggestioni estreme dell'apparire, sembra compiersi.
Anche nel bassorilievo, tutto fluisce d'impeto verso lo spazio libero. Verso l'assoluto, cui l'Umano da sempre anela. Fuori da ogni retorica, nella solennità del vivere.
Lo slancio si evidenzia in linee rette, in angolature decise, nell'essenzialità delle parvenze corporee, che solo qualche riscontro anatomico rivela reali.
Di getto, i disegni riprendono i motivi di presenze muliebri, di cori angelicati. Tra reale e trascendente, il gesto e il segno si affermano in atteggiamenti equilibrati, tendenti per qualche verso ad astrarre sempre più gli elementi formali.
L'arte di Adriano Bozzolo è soprattutto un messaggio rivolto al sentimento sacro della vita, alla fratellanza universale, a quella religiosità intrinseca all'animo dell'Uomo.
Sensibilità e stile, dalla poetica dell'artista, si traducono nel linguaggio della scultura, del disegno, della pittura. Ed è la pittura, un altro modo, per 'sentire' la sua emozione approfondita nella produzione plastica; anche qui il movimento incalza nelle figure tese a evadere dalla prigione terrestre. Tra colore e luce, ancora una volta, ogni figura si discioglie in volo nell'armonia del creato a cui mirare. La divaricazione e l'angolatura delle membra rendono ancor più filiformi le suonatrici di tromba, dove lo strumento continua idealmente il corpo liberato quasi totalmente dal suo peso.
Mostra dopo mostra, committenza dopo committenza, al di qua e al di là delle Alpi, tra Italia e Svizzera, la delicata ma ferma poesia di Bozzolo si amplia in esiti felici, supportati dalla coerenza di pensiero e dalla padronanza tecnica.
La musicalità delle esecuzioni si riconferma, in una narratività lirica e distesa, per tutto l'arco cronologico creativo che non si è ancora compiuto, ma si è definito sul piano umano, volto all'eternità.

 

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