Scultura, all’origine dell’umanità
Vittorio Tavernari. Maternità, figure, torsi,
calvari, cieli, amanti. Le radici vere dell’essere.
L’ipotesi dell’esistere in termini di
universalità. Il valore assoluto sfuggito alla
narratività dell’episodio, fuori del filo storico.
Una rivalutazione costante e coerente delle ricerche
in atto nel secondo dopoguerra italiano porta a una
riflessione critico-storica sul lavoro scultoreo di
Tavernari, uno dei protagonisti della scultura
moderna. Un’esperienza artistica estremamente
innovativa, condotta in un ‘fare’ inedito
attraverso sperimentazioni peculiari che innescano
ampie possibilità di nuove letture.
Nel transito creativo, ricorrenti sono le tematiche
articolate in cicli, affrontati in una completezza
espressiva mai superficiale, in grado di individuare
speranze, amore, religiosità, vibrazioni arcane. Le
tappe più evidenti della vicenda artistica di
Tavernari svelano riflessioni e intuizioni al fine di
acquisire ogni volta suggestioni nuove. Le fasi
successive della ricerca interrogano le precedenti,
rispondono con il baluardo della fede ai misteri dell’esistenza,
addentrandosi nelle contraddizioni dell’uomo con la
ferma coscienza della sacralità del vivere.
Il rapporto intrattenuto agli esordi con la cultura
del tempo è intenso e fermo. Negli anni ‘44/’45,
il fermento intellettuale si dimostra aperto al
confronto con le coeve istanze europee, ormai fuori
dai ristretti limiti delle situazioni italiane,
staticamente fisse entro le coordinate delle due
guerre. Una prospettiva di libera espressione che
Tavernari aveva acquisito sin dai tempi della sua
formazione giovanile, avvenuta nell’atelier di un
valente maestro, Francesco Wildt, che diviene figura
determinante, dopo quella del padre restauratore d’arte,
per il giovane artista con la vocazione alla scultura.
E’ in quei tempi difficili e frastornanti a Milano
tra il ’35 e il ’39 che Tavernari impara a
lavorare su materiali differenti, in un ‘fare’
assiduo su legno, marmo, pietra, bronzo. Nell’atelier
del maestro Wildt transitano artisti significativi
come Carmelo Cappello, Bruno Cassinari, Milani e Dal
Forno. Nasce un sodalizio importante e fervido per le
ulteriori implicazioni che negli anni a venire
troveranno sviluppo.
Nei primi Anni Quaranta, già si delinea quello che
sarà il filo conduttore attorno a cui si muoverà il
cammino artistico di Tavernari. Nel tempo della fuga e
del soggiorno a Como, dove ha modo di frequentare il
gruppo del Caffè Rebecchi, si consolida l’amicizia
con i futuri artisti di quello che verrà denominato
"Gruppo di Como": sono Manlio Rho, Aldo
Galli, Alberto Sartoris, Pietro Lingeri. Parimenti
incontra Piero Chiara, Ennio Morlotti. E nel 1945 con
Morlotti, Testori, Cassinari, Birolli, Cavallari,
Paganin, Guttuso, fonda il Gruppo Numero, dal nome
della rivista che intende ripercorrere gli esiti
innovativi di Corrente. L’anno successivo, Tavernari
è firmatario del manifesto Oltre Guernica, scaturito
dall’urgenza dei tempi che si aprono a un impegno
morale e intellettuale, a sostenere con rigore la
nuova ricerca nel campo delle arti visive.
L’ambiente artistico milanese si presenta molto
combattivo e l’atmosfera appare densa di
provocazioni; dal canto suo, nel clima generale
incandescente, Tavernari offre soltanto una sorta di
solidarietà etico-esistenziale. Per lui è giunto il
momento delle scelte: nella quiete della provincia di
Varese, dove si stabilisce dopo il matrimonio con
Piera Regazzoni, valente violinista, può ora meditare
nel silenzio di lunghe giornate di lavoro solitario,
per mettere a frutto la maestria tecnica entro le
suggestioni e le scoperte della sua viva creatività.
Di quel travagliato, fertile periodo rimane un
percorso avvincente, innestato sulle Maternità, in
legno e in pietra, che prefigurano, in una evoluzione
ideale e plastica, le Pietà. Ascia e sgorbia: il
gesto possente e rivelatore forgia quei tronchi che
sembrano alludere alle antiche prove dei maestri
comacini.
La struggente unitarietà delle due figure – la
madre con il figlio e la Madre Divina con il Figlio di
Dio – lascia emergere una fortissima componente
arcaica, in una forma da riportare alla scultura
arcaica, per quella salda volumetria risalente pure a
motivazioni totemiche. Sacrale e ieratica, la Madre di
Tavernari è apparizione primitiva, in una intuizione
essenziale del valore della vita e dell’amore.
L’assenza del dettaglio, la marcatura plastica che
non ammette incertezze rispondono alla sua personale
esigenza della verità, della generosità espressa
dall’amore materno, nel tono estremo di una
religiosità che tutto umanizza, nel gesto protettivo
dell’abbraccio infinito. Così il soggetto delle
Pietà si contestualizza in una continuità riflessiva
dalle Maternità, tematica che Tavernari mai lascerà
cadere, riprendendola costantemente nel tempo, fino
alla Grande Madre del 1980.
Tavernari non abbandona mai il suo interesse per il
corpo umano, anche se l’itinerario appare molteplice
e la modulazione creativa è continua. Le ascendenze
culturali si illuminano talora delle esperienze di
Moore, Arp, ma anche di Marino, di Maillol e,
risalendo via via, risentono del fascino arcano del
Romanico lombardo, dell’arte negra o, talora, della
dolorante scarnificazione di Giacometti.
Gli esordi degli Anni Cinquanta recano una vigorosa
tensione intellettuale, in una strutturazione prima
mentale e poi volumetrica che porta l’autore ai
Totem, testimoni di vitalità potenziali primarie. In
particolare, si coglie l’emblematicità panteistica
del Totem eseguito in vetroresina nel 1972 (di
proprietà della Banca di Lodi, Varese) su progetto
del 1949/’50. Del 1948 è il bozzetto in legno di
quel Totem monumentale, realizzato negli Anni Settanta
e oggi di proprietà del Castello di Masnago, a
Varese, esposto in mostra. Ancora del 1949/’50 è l’altro
Totem in legno della Galleria d’Arte Moderna di
Milano.
Da quell’impronta, nei ritmi volumetrici
essenzialmente astratta, una nuova indagine figurativa
induce l’artista a continue modulazioni sulla figura
femminile: alla metà degli Anni Cinquanta sono i
Torsi ancora turgidi in legno, in gesso, a recuperare
quell’addensamento di valenze esistenziali fuori
della contingenza aneddotica. Nel riscontro formale
riaffiora una linea classicheggiante, già sul punto
di disintegrarsi. Una maturata consapevolezza formale
si rivolge ora in modo prevalente al nudo femminile,
in un procedere essenziale su schemi plastici
antropomorfi. La figurazione diviene peculiare in una
fortissima valenza centripeta entro quei monoliti
scalfiti drammaticamente in una descrittività
sommaria, quasi brusca: ed è, sempre ed ancora, la
figura femminile ad accogliere il vissuto più
sentito, nascita e morte, alfa e omega, della scultura
tavernariana.
Nei nudi femminili di quegli anni, è la luce la
vera dominatrice dell’opera scultorea, percorsa da
fremiti improvvisi sulla superficie scabra, che si
rapprende attorno all’esplorazione fitta della
materia.
Alla Biennale di Venezia del ’54, Tavernari espone
Carità e Maternità in pietra, già indagando
aperture verso nuovi corpi dalla sensibilità
informale. Dopo aver sperimentato quelle consistenti
sensazioni antropomorfe, ora l’artista guarda a
sviluppi più emotivi su legno, cemento, pietra.
Da qui, prendono vita i Legni Piatti del 1958/’59,
lunga sequenza di Torsi femminili e di Torsetti che
testimoniano, prolungandosi fino alla metà degli Anni
Sessanta, la piena maturità di un linguaggio
espressivo singolare: sono "il passo
decisivo" afferma Ragghianti. Arcangeli, poi,
sottolinea il coinvolgimento in quello che chiama
"Ultimo Naturalismo", un clima ‘pittorico’
di presa di coscienza della materia in senso organico.
L’evoluzione della figura avviene nella ricchezza
di immaginazione che abbandona l’energia, la
generosità massiccia in cui prima la forma affondava
nel cilindro della materia. Anatomie lievitanti
appaiono nelle approssimazioni delle tacche, prodotte
dallo scalpello, nella fragilità estrema dello
sfaldamento verso l’astrazione. Il lieve rigonfiarsi
dei seni, la morbidezza del bacino sembrano come
percorsi come da amorose e insieme affannate carezze,
mentre le striature sulle fibre legnose risvegliano il
sapore antico della vita nel momento dell’intuizione
più sensuale.
Ai Torsi femminili si alternano i Torsi di Cristo
Crocifisso, schematizzato nell’essenzialità di un
tronco martirizzato.
La critica italiana più avvertita dedica a
Tavernari studi approfonditi attraverso gli scritti
dei già citati Ragghianti e Arcangeli, a cui si
affiancano De Micheli, Carluccio, Valsecchi, Santini,
Russoli e Carli.
Ancora Arcangeli, per Tavernari, parla "di una
accentuazione del sentimento che gli è particolare,
come un dolore e una gioia inestricabili, ma tutti
interni, quasi da stanza privata."
La vitalità creativa si muove verso cicli compiuti
dal difficile, complicato spessore: ogni esperienza è
portata all’estremo, in una consumazione
esistenziale senza fine. Oltre al legno e alla pietra,
anche materiali come la creta e il gesso, ritrovano
quasi un punto di partenza biblico: la terra si
mescola idealmente con la carne per diventare
provocazione umana.
Ogni espressione scultorea, in quella che viene
considerata la stagione più alta della creatività
tavernariana, diviene più intima, più legata ad una
visione della vita avvertita nella solitudine, in una
confessione silenziosa di gesti dolenti entro la
materia. Zone di luci e ombre si spartiscono la
scultura entro l’urgere e il moltiplicarsi delle
vibrazioni vissute fino allo spasimo. La testimonianza
della figlia Carla, nel volume "Lettere a
Tavernari", (Nicolini Editore, Varese, 1994),
puntualizza la tecnica dell’artista:"…sui
massicci tronchi di legno africano, come l’iroko,
dopo la prima sbozzatura, tracciava col carboncino dei
segni corrispondenti alla sagoma della scultura da
scolpire e procedeva così, per via di levare, alla
realizzazione dell’opera."
Molte, anche, in questo periodo, le prove pittoriche
e grafiche, modulate in un respiro fremente. Un
disegnare, che non è mai fine a se stesso, ma risolve
un’esigenza di risultati da esperire, abbandonandosi
al gesto dell’immediatezza, all’urgenza dell’idea.
Disegni, tempere, documentano un procedere entro una
frammentazione palpitante della figura femminile,
sempre più senza braccia e acefala, mente l’addensamento
delle scalfitture lascia germinare potenzialità, in
un serrato colloquio con la materia lacerata o nell’esercizio
di insondabili avvallamenti.
Esiste una forza che traversa le sculture (così
come per il disegno e la grafica) dall’interno, in
una sorta di decantazione della sofferenza, resa
visibile in quel levare, soprattutto quando la materia
scelta è il legno e la scultura appare nella
visibilità delle fibre della materia.
"I colpi si susseguono febbrili – scrive
Marco Valsecchi nella monografia "Vittorio
Tavernari. Sculture. 1945-1970", Scheiwiller,
Milano, 1970 – a tensione crescente. Eppure non
cercano mai la confusione dell’informe: ogni segno
porta la sua luce e il suo rovescio d’ombra con
calcolato contributo…."
In una ieratica, aperta frontalità sono i Cieli del
decennio Sessanta, tramati da testure incise,
stratificate, sublimate in una temperie esistenziale
che produce uno scarto visivo verso l’infinito della
luce.
Ma prima dei Cieli smisurati, giungono i Calvari,
torsi e croci al tempo stesso. Qui, le figure sono
elementi essenziali che si ergono in un’aspra
solitudine acquisendo una coscienza cosmica. Nell’altissima
dimensione di una intrinseca spiritualità, i Calvari
paiono la discendenza diretta di quei Torsi di Cristo
che li hanno preceduti: conducono alla grande
partecipazione corale del sacrifico del Golgota.
Le tante contraddizioni di quegli anni si
rispecchiano in un drammatico e sconcertante presente.
La guerra del Vietnam, da una parte, le conquiste
dello spazio, dall’altra, delineano un presente
segnato da un travaglio morale di forte intensità.
Già nel primo Cielo del 1968, le veloci tacche sul
legno ribadiscono il mistero di un cosmo, in cui
febbrilmente collocare le piccole figure, le croci,
evidenti, nonostante le minute proporzioni.
I Cieli, rilievi bassissimi su bronzo oppure su
legno in cui il colore offre variazioni di gamme per
effetti plastici minuziosamente inseguiti, sono
percorsi da aliti di vento nelle striature che corrono
parallele. Le distanze si fanno immense sulle piccole
apparizioni: sono tre croci, è una coppia, sono gli
amanti avvinti nella passione. Nell’orizzonte
lontano, trascorrono nubi talora minacciose,
scenografia ricorrente e senza tempo del dolore umano,
del travagliato fremito della carne verso la quiete
dell’eternità.
Da quel lontano esperire tecniche e materie, nelle
lezioni wildtiane, Tavernari ha maturato una propria
cifra stilistica, in una feconda, ideale adesione a un
motivato rinnovamento dell’arte, a cui affidare il
suo messaggio umano, in inesauribili soluzioni
formali.
Il ritorno a forme meno astratte, più legate al
reale, dichiara la volontà di esprimere tutta la
temperie umana, senza cristallizzazioni intellettuali
che Tavernari non sente sue.
Il ciclo degli Amanti, che prendono a vivere dagli
Anni Settanta, ulteriore scandaglio sulle tematiche
dell’Amore, riportano il volume nelle sculture,
acquisendo, nell’equilibrio della composizione,
masse corporee di grande entità. Sono gruppi
monumentali, come gli Amanti in legno, 1973, del
Comune di Barasso, che richiudono il cerchio della
creatività nella consapevolezza formale delle prime
Maternità.
Diceva lo scultore, in una frase riportata da Enzo
Carli in "Tavernari", Ed. Giardino, 1974:
"Per me, da molti anni ormai, non esiste che la
possibilità, quotidiana, di scoprire la vita
attraverso il soggetto della figura (sottinteso:
umana) dove s’incontrano, e si fondono, le realtà
esterne a quelle sotterranee, dei miei sentimenti dell’ora.
Ed è qui, in questo limite indecifrabile spesso, che
si fa realtà il dibattito, a volte tragico e non mai
senza peso, della mia faticosa giornata di uomo: le
contraddizioni, le ricerche, le lancinanti ore del
dubbio. In una materia quasi tento di chiarire a me
stesso questa situazione: di armonizzarla, di
illimpidirla, per sopravvivere, almeno."
Dall’immagine ridotta a luci e ombre, ricompare
con gli Amanti la corporeità, in una consapevole
armonizzazione del volume e del peso. Fino alle ultime
figure in legno, l’artista riprende quella vena di
creatività e dà, ancora una volta, una risposta
valida, positiva, alla terribile affermazione di
Arturo Martini "Scultura, lingua morta".
Le possibilità di lasciare decantare la condizione
dell’esistere umano nella materia legano l’artista a
una verità divenuta, via via, molto personale: con le
ultime opere, come per la Figura femminile lasciata
incompiuta nello studio, la narrazione si conclude, in
una partecipazione emozionale intensamente risentita,
con il prevalere della ritrovata dimensione corporea,
dopo la rarefazione formale e gestuale degli Anni
Sessanta.